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“Il dolore è un'esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale”.

Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP)

Il dolore esiste ogni volta che il paziente lo esprime e per come lo esprime (Mc Caffery) costituendo un contesto patologico fortemente soggettivo, la cui valutazione e comprensione sono strettamente legate alla capacità del clinico di ascoltare, visitare, interpretare.

In molti casi il dolore è secondario a patologia individuabile e curabile; in altri casi il dolore cronico costituisce esso stesso patologia, e come tale va trattato.

Il Terapista del Dolore, o Algologo,

è il medico che si occupa della diagnosi e della cura del paziente affetto da dolore. Nella maggior parte dei casi gli Algologi sono Anestesisti Rianimatori che si occupano anche di Terapia del Dolore, essendo quest'ultima una disciplina insegnata già in scuola di specialità (Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore) e comunque molto affine alle competenze farmacologiche e di pratica clinica quotidiana dell'Anestesista.

Negli ultimi vent'anni la Terapia del Dolore si è affinata ed espansa andando a costituire una nicchia tutta propria della scienza medica, tanto da richiedere una formazione specifica e una dedizione continua.

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Dolore acuto o cronico?

Spesso si sente parlare di dolore cronico ma mi sono reso conto di quanto sia difficoltoso da comprendere.  Diventa cronico dopo quanto, un mese, sei mesi, un anno?

Certo, il tempo fa la sua parte, ma non è strettamente una questione di tempo…

Il dolore è cronico se permane oltre i tempi sensati di guarigione della patologia a cui è legato. Nel caso in cui il dolore esista come unico sintomo della malattia, esso stesso deve essere considerato malattia, e generalmente è già cronico.

Per capirci, tra i malati che vedo e curo giornalmente in ambulatorio è molto più difficile trovare qualcuno con dolore acuto.

Il dolore acuto è quello causato da malattia o lesione recente e attuale, il dolore di una frattura, di una ferita, un livido, legato ad un intervento chirurgico o per un ascesso ancora da drenare, il dolore di un dente cariato. Questo tipo di dolore lo vedo e lo curo molto più spesso come anestesista che non come algologo; l’analgesia postoperatoria è un esempio di questa azione.

Ma lo cura spesso e bene anche il medico di base o lo specialista di pertinenza! Le cose si complicano quando il dente viene curato ma ne residua una nevralgia cronica…

Due concetti, neuropatico e nocicettivo

La cura efficace del dolore è necessariamente correlata ad una corretta diagnosi algologica, e questa inizia dalla comprensione del sintomo dolore che ci troviamo a trattare.

Ebbene sì, esistono tipi differenti di dolore e rispondono ad approcci completamente diversi.

Come ho già specificato la mia finalità non è quella di fare un trattato di medicina del dolore, ma cercare di far passare pochi concetti semplici ed essenziali perché le persone possano capire quello che succede.

Cercherò quindi di semplificare più che posso.

Il dolore in modo grossolano può essere diviso in due gruppi fondamentali: nocicettivo e neuropatico.

 

l dolore nocicettivo è il più semplice da capire, esso è il sintomo derivante da un danno tissutale e viene percepito per l’attivazione di terminazioni nervose periferiche (nocicettori) che a loro volta comunicano con il sistema nervoso centrale (encefalo) che rende il sintomo dolore immediato, chiaro, localizzabile e legato all’evento che causa dolore.

Ad esempio, cado e batto il ginocchio, il trauma causa un danno ai miei tessuti e provo dolore. Spesso la nocicezione è il meccanismo che ci salva la vita allontanandoci da un pericolo.

 

Il dolore neuropatico è più complesso da capire ma anche da inquadrare. Genera da un danno o disfunzione che interessa il sistema nervoso, a qualunque livello, periferico, centrale, o entrambe. Risulta spesso mal definibile e scostante, avulso da un contesto temporale preciso e difficilmente localizzabile anche spazialmente. Spesso è riferito, ovvero viene localizzato dal paziente nella parte del corpo innervata dalla fibra interessata (dal nervo o radice malata) e non dove esiste la malattia.

Per esemplificare; mi capita che il paziente dica che gli fa male il ginocchio, indicandomi una area sfumata, rappresentando dei sintomi sospetti a corollario che mi orientano, non su un dolore articolare, ma su un sintomo legato ad un danno radicolare che nulla ha a che fare col ginocchio… se gli infiltrassi il ginocchio farei un buco nell’acqua.

Il dolore neuropatico è spesso accompagnato da un corollario di sensazioni sgradevoli, le parestesie che possono essere descritte variabilmente come scosse, formiche, bruciore o da fenomeni come l’iperalgesia dove un evento che causa poco dolore viene percepito come molto doloroso o allodinia nella quale eventi che non dovrebbero causare dolore lo causano, ad esempio lo scivolare del lenzuolo sulla gamba viene percepito come insopportabile per il dolore che procura; questi eventi nascono dal fatto che i meccanismi del dolore neuropatico "confondono" il sistema nervoso e coinvolgono fibre che non dovrebbero condurre dolore.

 

Pare ovvio avendo letto queste poche righe come i tipi di dolore siano ben diversi, a ovviamente saranno da trattare in modo diverso.

 

Nella pratica clinica, purtroppo, le cose sono molto complesse e i due tipi di dolore spesso coesistono, richiedendo un attento bilanciamento delle cure ma soprattutto una difficoltosa analisi del problema.

La (mia) visita di Terapia del Dolore

 

Durante una prima visita di Terapia del Dolore mi capita di frequente che i pazienti, incentrati mentalmente su quello che mi vogliono dire riguardo al loro sintomo, tendano a sviare le mie domande che in modo visibile ritengono inutili se non talvolta “inappropriate”;

alle volte, mentre sgranano gli occhi stupiti alle mie domande precise, mi sembra proprio di vedere il fumetto “ma che cosa insiste ‘sto dottore con la mia pressione che sono qui per la sciatica!”

 

Ebbene, io penso che una visita debba necessariamente iniziare con la raccolta dell’anamnesi del paziente, della sua storia clinica, delle patologie che presenta e dei farmaci che assume; perfino le abitudini di vita sono importanti, ad esempio sedentarietà, attività sportiva, lavoro, ecc.

Solo in un secondo momento faccio l’analisi del dolore riferito, con domande specifiche atte a capirne la natura e la possibile origine, una visita fisica adeguata alla situazione e la visione di eventuali esami diagnostici.

Una prima visita accurata dura anche 30 minuti.

A volte di più, perché è spesso in quei piccoli particolari, nati da una visita dettagliata e indagatoria, che nasce la comprensione della reale causa di un sintomo non immediato da capire, oppure in essi risiede la capacità di impostare una terapia “cucita sul paziente con abilità sartoriale”.

 

Lo stesso discorso vale per la diagnostica strumentale: spesso i miei pazienti entrano in ambulatorio appoggiano sul tavolo la risonanza, che ormai quasi tutti hanno, e si aspettano che io con solerzia la guardi “dottore, ma la risonanza non la guarda?”

Spesso sorridendo rispondo a questa domanda, alla quale sono ormai abituato “la guardo, la guardo, ma dopo. Prima preferisco farmi la mia idea clinica e poi confrontare. Sono un uomo e la mia pigrizia mentale potrebbe portarmi a prendere per buono quello che si vede, senza cercare criticamente quello che in realtà è…”

In tutto questo sono convinto che nella realtà di tutti i giorni proprio per questo motivo, alle volte vengano curate molte risonanze invece dei loro umani.

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